sabato 29 ottobre 2011

Ave d'innata quiete






Mai assorta

nell’ardimento d’ infimi e smaniosi cospetti.
 
Imprescindibile venustà dal mai spurio velame.

Se a te

 fosser stati ebbri i verbi del pronunciar tuo
 
mai

saresti stata mater d’ogni vital dignità.

Femminea manna,

 eterea entro l’animo di chi t’ama.

Vocalità

 dinnanzi al serbo

di chi mai disdegnò d’udirti.

Niveo il volto tuo,

 mai cantico né poema

se non immortal  vita,
 
disconosciuta ad una morte

che mai il tuo corpo lusingò.

Concezione di quella

che fu la virginea beatitudine.
 
Pia nel casto passo tuo,

 imprescindibile ed adorna orma.
 
Puerpera d una sacral stirpe

che mai rinnegò il tuo nome di madre.
 
Mai celata

 al profumo di nari inebriate

 della tua irreprensibilità.

Fosti pargola in un suolo ostile,

in esso divenisti donna
 
indossando calzari

dal desueto ed immortal passo,

proseguendo verso la stirpe

 di chi a te invocò Ave.

Mater d’ un dualismo

 tra carnea e spiritual compostezza.

Fosti fondamenta d’ un soave pregar,

dal qual ogni tuo
 
dire

 diviene  indiscusso distico d’ un magnanimo idillio.

Se fossi tu,

sovente nella molteplicità di quelle anime loro
 
ogni vissuto

diverrebbe candida nenia d innata quiete.





(Enrica Meloni)

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mercoledì 26 ottobre 2011

Meretrice


Desueta, incalzante e beffarda meretrice

solerte ed infingarda d’arguzia sei matrice.

Or ora di sonante moneta, ligia calcolatrice.

Mai redenta al confessionale,tu peccatrice.



Amante dalla precaria ed acre dannazione.

Sconosciuta al puritanesimo come vocazione.

Precettrice di coiti al costo della negoziazione.

Primario pensier ad ogni loro masturbazione.





Di veste opaca il ventre tuo si cinge mai amato.

Ostile lucro d’un sentenziante corpo dannato.

Riposante da ciò che al crepuscolo ier hai dato.

T’appresti alle novelle brame dello scaltro creato.



Sguaiata femminina e furtiva scordata presenza,

dell’autentico e real amor tu conoscesti l’assenza.

Non indugiasti ad’aver dignità ad ogni maldicenza.

Spirito arguto ad ogni sguaiata e solita irriverenza.




( Enrica Meloni)


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mercoledì 19 ottobre 2011

Un viaggio allegorico attraverso il poema dantesco.




La peculiarità del poema allegorico è sostanzialmente basata sulla divulgazione e trattazione d’argomenti di matrice religiosa o di stampo etico-filosofico, contenuti che sono narrati attraverso l’utilizzo di concetti simbolici, icone dell’immaginario umano che necessitano di un’accurata attenzione ed interpretazione. Il processo allegorico non è altro che l’attribuzione d’un significato differente da quello originario, che rende alla parola di base un carattere di potenziale rivisitazione, il vocabolo in questione non è ciò che in realtà è mostrato letteralmente sul testo, in quanto realmente esprimerebbe un significato differente.



 Il contesto medioevale rappresentò il vero fulcro all’interno del quale questa metodica poetica ebbe vigore e successo, la si considerò una soddisfacente forma di didattica, giacché attraverso la giocosità dei termini fu comunque capace d’insegnare e diffondere dottrine e contenuti di vario genere. Uno strumento letterario dall’accezione accademica, per mezzo del quale le complessità filosofiche furono comunicate ai didatti con una chiave di linguaggio lontana dal consueto formalismo. Tale tipologia di poetica consentì agli autori di poter comunicare i loro contenuti attraverso icone, immagini mentali che fossero in grado di suscitare interesse al lettore per la loro funzione figurativa, solitamente complicata, ma decisamente più interessante e coinvolgente durante la lettura. Lo scopo primario del poema allegorico  fu quello di concedere al lettore d’esser coinvolto nel processo di ricerca del significato reale dei termini e dell’intero contenuto convertito in un’allegoria dalla necessaria traduzione interpretativa.



 Il percorso di lettura e comprensione dei testi avvenne grazie ad un meccanismo psicologico, durante il quale la stessa mente fu indotta implicitamente ad accostare determinati significati ai concetti stillati sui versi. L’elemento cardine dell’allegoria fu la presenza di figure visive, descritte dall’autore, il quale ponendole in evidenza s’accinse a sostituire normali parole da dizionario mostrandole così in un’ottica quasi vissuta, platonicamente impalpabile ma emozionalmente vivibile. Non è sottovalutabile l’influsso positivo e professionale che l’abilità in codesta arte ottenne, giacché la riuscita di tutto ciò comportò inevitabilmente a far si che l’autore fosse adornato d’un divo misticismo artistico degno d’ossequio.


 L’emblema letterario per eccellenza pregno d’allegorici contenuti è l’iter poetico presente nei versi della Divina Commedia di Dante Alighieri. L’opera è un poema, la sua composizione è strutturata in tre cantiche denominate: Inferno, Purgatorio, Paradiso. L’opera è costituita da cento canti in versi endecasillabi, suddivisi in trentatré canti per ogni cantica con l’aggiunta di un canto proemio, scritto in terzine a rima incatenata ed un singolo verso di chiusura al termine di ciascun canto. Il percorso Dantesco è leggibile anche attraverso la stessa rappresentazione grafica del racconto, mediante una struttura concentrica dei gironi metafisici che meriterebbe una trattazione a sé. Il tutto viene nel medesimo tempo riportato in parole attraverso tre tipologie allegoriche, approfondite grazie ad una chiave di lettura avvincente, ovvero il viaggio e l’incontro, un accorgimento frequente anche nel modello del Romanzo Cavalleresco sviluppatosi in Toscana nella seconda metà del Duecento e nei primi del Trecento. Analizzando gradatamente la stesura, occorre dar esame al concetto paradisiaco, alla morale in esso occultata ed all’intento accusatorio che lo stesso Dante volle esprimere attraverso un messaggio subliminale circa i personaggi resi protagonisti dell’excursus in tappe.
In primo luogo s’analizzi l’immaginario infernale, denotando così un contesto figurativamente abitabile, rappresentato da un gorgo di forma conica rovesciata, del quale il turbine vorticoso s’addentra nella parte centrale della terra. La discesa verso l’incanalatura permette il raggiungimento del fiume Acheronte, del Limbo fino al proseguimento verso i nove cerchi delle tormentate ombre dei dannati, icone dall’inguaribile sofferenza, perpetrate nell’abisso del travaglio illimitato donatagli dal contrappasso, legge assoluta per il loro penare. Un dirigersi verso le peccaminosità molteplici, divenendo testimoni di rei dalle colpe capitali, dalle infamie contro la Provvidenza e la sua opera, seguiti da coloro che divennero portatori d’eresia nelle sue più svariate forme. Un addentrarsi sino all’esser testimoni d’un Lucifero alato in atto, cibatosi dalle sue tre bocche di vili e traditrici personalità quali Bruto, Cassio e Giuda. Quivi si ponga attenzione alla strumentalizzazione dell’immaginario, concretizzato nel dialogo di personaggi negativi per il contesto storico-sociale dell’umanità. Un disdegno in cerca di giustizia rappresentato dalla punibilità infernale, sofferta e travagliata come quasi pareggiarla al dolore patito dalle vittime di chi visse sul suolo terreno piangenti pene causate da coloro che sono collocati nell’inferno Dantesco. Una
collocazione di demerito, una carcerazione spirituale e non, intenta in chiave allegorica ad un fine ultimo: la condanna.



III CANTO INFERNO


Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,     24
per ch’io al cominciar ne lagrimai.


Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,          27
voci alte e fioche, e suon di man con elle

facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.      30


La medesima tecnica è applicata anche nel contesto del Purgatorio, analogamente dalla forma conica, ma dal vertice rivolto verso l’alto. Evidente la presenza del Monte Antipurgatorio che precede il Purgatorio vero e proprio, strutturato in sette ripiani composti da una parete interna avente il lato rivolto verso lo stesso monte, in contrapposizione dal lato esterno confinante invece con il vuoto. Mentre nel primo caso vi si pose in risalto la figura diabolica, in questo è evidente l’utilizzo della figura angelica che diviene guida delle anime purganti, giunte sul luogo tramite una surreale imbarcazione. La realtà del Purgatorio per quanto anch’essa sia destinata alle peccaminosità, ospita nei suoi meandri tipologie di peccati meno gravose e non irrimediabili quali: vizi personali, mali morali verso terzi, comprendenti questi tutte le forme d’invidia e superbia, attaccamento verso i beni materiali ed indifferenza verso Dio. Questa seconda parte preclude una stesura dall’essenza mediatrice, per mezzo della quale lo stesso autore condanna gli egocentrismi umani, riuscendo comunque a contrapporli in fatto di gravosità ai precedenti, delineando cosi la non categoricità della pena, ma il travaglio e l’impegno verso una possibile redenzione. Nulla di più consono a ciò fu possibile se non attraverso l’allegoria del


Purgatorio, una purificazione di coscienze parlante ed agente, inscenata ottimamente in un contesto non terreno.



I CANTO PURGATORIO


Lo bel pianeto che d’amar conforta
faceva tutto rider l’orïente,
velando i Pesci ch’erano in sua scorta.    21

I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente.   24


Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito,
poi che privato se’ di mirar quelle!          27


In terzo luogo, il metodo allegorico dantesco tratta il contesto paradisiaco, nel quale ogni beatitudine diviene protagonista di prim’ordine. Il Paradiso presenta una struttura di nove fasce concentriche, le quali sono disposte in nove cieli, attorno dei quali vi è l’Empireo, generato da una luce incorrotta, un fascio luminescente d’armonioso vedere. La forma strutturale è quella di un anfiteatro, sulle quale scalinate è possibile contemplar le anime sedute in procinto di contemplazione divina. Si denota la movenza dei nove cerchi intorno al Creatore, sfere nelle quali permangono le varie
meritocrazie, le più distanti dal sommo spirito sono quelle afferenti ai meriti acquisiti nella vita terrena. Anche in questo caso l’ingegno dantesco attraverso l’utilizzo delle icone salvifiche pone in risalto la supremazia di un bene che necessita un profitto di quiete come ricompensa e merito decisamente e pregevolmente conseguiti.





I CANTO PARADISO



 La gloria di colui che tutto move                             
 per l'universo penetra, e risplende   2.
in una parte più e meno altrove.
 Nel ciel che più de la sua luce prende               
 fu' io, e vidi cose che ridire
 né sa né può chi di là sù discende;    6.
 
 perché appressando sé al suo disire,                      
 nostro intelletto si profonda tanto,        9.
 che dietro la memoria non può ire.
  Veramente quant'io del regno santo                 
  ne la mia mente potei far tesoro,
  sarà ora materia del mio canto.     12. 








ENRICA MELONI


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lunedì 17 ottobre 2011

La litote, uno stile di moderazione




Anche la struttura poetica annovera nel suo esprimersi elementi di moderazione, capaci di riuscire a render palese una caratteristica attraverso l’espressione del suo contrario, strumentalizzando cosi aggettivi divergenti che appaiano efficaci nel render comprensibile un concetto mai esplicito né assoluto. Tale metodica, consuetudinaria dell’arte poetica è denominata Litote, una figura retorica mediamente utilizzata involontariamente, dal momento che giornalmente rientra nella naturalità del linguaggio comune. Sostanzialmente nella sua implicita funzione concede al lettore di risalire ad un vocabolo o concetto chiave che per ovvi motivi l’autore tende a non render esplicito, ma lascia che la trascrizione del suo opposto possa render comunque chiara la caratteristica del sostantivo in questione apparentemente occultata. Tale figura diviene mediana efficace tra un soggetto specifico narrato e l’elemento distintivo che lo rappresenta, non essendo mai quest’ultimo definito in maniera nettamente esplicita ed incondizionata. La comprensione di modelli pratici, rappresentanti l’effetto derivato dall’utilizzo della Litote sul testo poetico, è visibile in uno svariato patrimonio di fraseggi, versi moderatori che al loro interno includono qualità subliminali, all’apparenza celate ma nel medesimo tempo alquanto chiare e percepibili. Un esempio tratto dalla classicità poetica è leggibile tra le strofe del Foscolo, il quale nel suo componimento a Zacinto strumentalizza la figura retorica in questione, riuscendo elegantemente a render chiaro un concetto pur senza sbilanciare chiaramente il suo enunciare, il passo “ onde non tacque”, diviene soddisfacente rimostranza del come la negazione abbia potuto indicare invece un atto compiuto, giacché in tal caso, il non tacere divenne sinonimo del parlare. Una tecnica tanto arguta quanto infallibilmente adorna di caparbia stilistica. La litote non appare riconoscibile solamente attraverso l’utilizzo della negazione, bensì essa è manifesta in altre peculiarità, come l’attenuazione di un concetto, l’enfasi dello stesso o nei casi più articolati diviene eufemismo ed ironia. In primis, qualora essa esprimesse l’accezione enfatica, lascerebbe trasparire alla lettura un’immediata percezione della finalità d’intento e d’un mostrare un qualcuno o qualcosa. La si consideri un esibizione di natura sintattica, finalizzata a dar rilievo ad un concetto, ostentandone il suo significato ed i suoi effetti. L’enfasi non è solamente un elemento poetico, questa ha la sua valenza anche nel linguaggio parlato, la tonalità della voce la rende riconoscibile quando l’interlocutore desidera porre in evidenza la condizione o l’importanza d’un evento o d’un qualcuno; affermazioni come “ Quella si che è vita” o “ La fede non è utopia” sono chiari modelli atti ad indicare l’importanza, il pregio o la fattibilità di un determinato soggetto, evento, contesto o semplicemente oggetto. In secondo luogo, la Litote utilizzata in chiave eufemistica, indirizza la sua funzionalità verso un unico e specifico intento, ossia, quello di attenuare un’espressione sostituendo degli aggettivi pesantemente negativi o dispregiativi con altrettanti che abbiano la capacità di descrivere la contestazione del sostantivo in questione, senza però attribuirgli un giudizio esageratamente offensivo. Esempio della quotidianità è da ricercarsi in affermazioni come “ nuclei familiari poco abbienti”, “ una politica che lascia a desiderare”, in queste due frasi si denoti come l’eufemismo riesca ad attenuare la negatività dei contesti. Anche la figura eufemistica possiede una sua forma divergente, denominata Disfemismo, quest’ultimo concede all’autore di utilizzare parole sgradevoli o addirittura volgari per definire qualcuno o qualcosa, ma in senso totalmente affettuoso ed ironico, da non confondersi con l’Ironia, figura retorica tramite la quale si enfatizza una marcata verità attraverso l’utilizzo di una locuzione che dimostra l’esatto opposto della realtà o nel caso più frequente palesa sminuendo un legame di fatto.





Oh quel sacral impero, quello si che fu clamore,



amore di pena sconosciuta,



potenza che mai perdette battaglia.



Lor, soldati dalla sconosciuta lentezza del passo,



divennero frugali discepoli della gradual vittoria.



Si che quel fu storico agire,



anima d’un trono dal meritato incoronare,



tripudio d’un sovrano che non fu re



ma popolo ad esso stesso imperatore.





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sabato 15 ottobre 2011

Albagia


Albagia d’un narcisistico incanto,



un musicare d’infimi ego



dai quali mai pathos alcuno esordì.



Tempo perfetto d’un latino velame



dal quale trascese la patrizia altezzosità.



Saccente egloga di denudate cortigiane,



bucolica stasi sull’oltre della diceria.



Tronfi e burbanzosi sparlare,



sproloqui d’acuti risuoni.



Scoscese critiche sul tonfo



della magna infamia.



Sagome dagli ingiurianti baccani,



perenni capitali sull’avere dell’inciviltà.





( Enrica Meloni)

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mercoledì 12 ottobre 2011

Tu, Ritonna.


Esteta d'eleganza,



 posteriore rotondità alle spalle d’un pronao



 che di te è laterizia beltà.



Magnitudine alla deiforme preghiera,



parola tua nei marmorei tuoi messali.



Nato dalla vulcanica pomice



 mai temesti intemperie.



Dimora di leggendarietà



 vantasti di te somma posa.



Plasmata arte,



 Ritonna fu il nome tuo.



Percorsa da nobiltà



 a te affidate ad esser culla del perpetuo riposo.



Un decalogo reale,



 quello in cui la tua architettura si beò di visibilità.



Tekné dall’immortal veduta,



vista, contemplata,



 ribadita nel veder d’ottiche sapienti.



Materia di un’indelebile struttura,



 battesimo al mondo



 sii tu indistruttibile Pantheon.



Risorgivo al cospetto adrianeo,



 come ancestrale luce,



 fosti alla terra opera salvifica.




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lunedì 10 ottobre 2011

La poesia didascalica






Il genere poetico afferente alla poesia didascalica si basa s’una forma di brevi componimenti, mediamente strutturati in epistole o capitoli finalizzati ad enunciare teorizzazioni di matrice filosofica o di carattere etico e religioso. Altra peculiarità portante di tale tipologia è la trattazione di dottrine scientifiche e tecniche o d’argomentazioni dal contenuto geo-storico. Codesta branca ha implicato nel corso dei decenni una cospicua produzione poetica, catalogabile fin dagli albori del VIII a.C., periodo durante il quale il poema breve “ Le opere e i giorni” di Esiodo, divenne l’opera prima dalla quale conseguentemente ne derivarono altre produzioni, riprendendo da essa le caratteristiche di brevità ed informazioni pratiche su varie discipline. Il testo in questione divenne esempio emblematico sul come già all’epoca la poesia avesse anche rilevanza d’utile vademecum, infatti si rammenti che il poemetto di Esiodo trattò con un minuzia una sequenza di consigli utili allo svolgimento delle attività agricole nelle rispettive stagioni. Metodo quello didascalico, che divenne stile adatto all’impaginazione di manuali volti alla spiegazione delle attività. L’ambito zoologico e farmacologico, strumentalizzarono alquanto l’utilizzo di tale forma poetica, corredandone l’eleganza stilistica in simbiosi con l’utilità pratica dei dati descritti e spiegati con specifiche conoscenze. Il contesto agrario vantò d’importanti poemi didascalici, vedasi gli “ Antidoti di Nicandro”, contenente un excursus valido alla conoscenza dei veleni animali, cosi come un altro prezioso patrimonio in età alessandrina come i “Fenomeni di Arato” di Soli. Opere come “ La coltivazione dei campi” di L. Alemanni o “ Il podere e la balia” di L. Tansillo, entrambi poemi didascalici del Cinquecento,i quali si rifanno alla tradizione classica delle “ Georgiche” di Virgilio. Fondamenta importante è da ritrovarsi anche in Lucrezio, il quale con la sua opera latina “ De rerum natura” accresce tramite la poetica l’interpretazione della filosofia epicurea. Per quanto concerne la fase Medioevale, i contenuti trattati s’incentravano sostanzialmente ai bestiari, ossia, riflessioni alle proprietà ed agli influssi benefici ottenuti dagli animali, al pari di questi ultimi è da ritenersi analogo il contenuti dei lapidari, riguardanti lo studio delle pietre e gli erbari, letteralmente riconducibili alle proprie salutari delle erbe. Un rinvigorimento di tale forma poetica si sviluppa con voga nel Settecento, periodo illuministico, durante il quale la necessità di chiarimenti filosofici e religiosi invitarono la ragione degli intellettuali ad una cultura non più empirica come quella delle arti manuali bensì ad una capace d’accostarsi alla metafisica dell’essere, finalizzata alla ricerca d’attività e tecniche che trascendessero dal materiale e vertessero sull’immaterialità presente nella quotidianità del sistema sociale, come l’esempio Inglese di A. Pope, il quale nel suo “Saggio sulla critica” e “Saggio sull'uomo”, dedicandosi all’utilizzo del verso poetico. Le prime raccolte di poesia didascalica, specie quelle di Esiodo, si presentarono in versi esametri, scritte in dialetto ionico, il quale possedeva delle varianti fonetiche, analizzabili e documentabili tra i componimenti di quest’ultimo e quelli di matrice omerica. Il livello stilistico apparve alquanto scadente, come quasi un abbozzar d’una nuova tecnica ancora da arricchire e perfezionare, solamente nei successivi periodi letterari, specie in quelli Europei, il didascalico vantò una forma alquanto leggibile in piacevolezza, comprensione ed eleganza, vedasi le produzioni dantesche e di Brunetto Latini. Il metodo didascalico in realtà seppur un’apparente manualistica d’insegnamento, volle congiungersi all’arte poetica catalogandosi in un’innovazione letteraria capace d’accorpare l’utile al raffinato. Una sperimentazione che però non ebbe un perenne successo tra gli autori, giacché lo sviluppo del romanticismo declinò l’interesse letterario verso ulteriori forme compositive, delineando il decesso artistico di tal forma, tanto amata quanto dimenticata.


ENRICA MELONI

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sabato 8 ottobre 2011

Elionora.


Matrice di social cartigli d’ardua e preponderante sagacia.



Mai infausta firma d’aberranti postulati.



Grembo di fertili istanze,


dalla quali ogni storicità divenne da te contemporaneo lascito.



Tu, giudicessa del tuo essere,



matriarca d’ogni autoctona difendibilità.



Garante di salvifici orgogli di sperata indipendenza,



dirigesti lo sguardo tuo verso l’inalienabile essenza d’ogni isolano pietrame.



Protratta nel nodo gordiano del potere


non tralasciasti fierezza alcuna.



Pragmatica enunciatrice d’amministranti epistole



divenisti estrema costanza di quel che la plebea veste chiede alle sue stagioni:



incorruttibilità esistenziale tra i domini.



Oltre l’ernie di veraci oligarchie divenisti sposa del netto far.



Esente dagli sproloqui del moribondo esecutivo,



ponesti voce al grido di un’ella Elionora,



la lei che divenne poi l’Eleonora del contemporaneo rimembrar.



Liberatrice di Lieros, carnea emancipazione d’ineguagliabile forma.




( Enrica Meloni)



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venerdì 7 ottobre 2011

Recensione sulla poetica di Maurizio Olla



 Gebel Musa



Tremila cinquecento settanta gradini.

Li salgo uno alla volta e per ognuno

ricordo, grata, il monaco che l’ha modellato.

Attorno a me una folla variopinta di suoni odori respiri:

un uomo in una prova di forza

vuole ancora dimostrare

qualcosa a se stesso e agli altri

o così crede.

Ragazzi impegnati

in una goliardica scampagnata notturna.

E cammelli che parlano

a ogni pietra del percorso

che sostiene il loro incedere.

Lascio andare tutti, resto sola,

solo un monaco muto accanto a me

      snocciola il suo rosario.





Gebel Musa, una stesura dal carattere orientaleggiante. Una discorsiva poetica che risalta sulla pagina 32 dell’opera Angel Noir. Statale Editrice 2011. Pagine 57. Euro, 10,00. Autore del testo è Maurizio Olla, chimico , nato il 17 Ottobre del 1970, già noto per la precedente silloge poetica A piedi nudi nella notte. Edizioni Sardegna da scoprire, 2001 . Olla rende pregno il suo stile d’aspetti incisivi, tra i quali la presenza ed enunciata figura femminile, variabile costante dei suoi versi e le emozioni tratte da questa notevole presenza che tacitamente ne incide le sensazioni durante la lettura. Nulla è casuale, la singolarità d’ogni scritto, conduce ad un determinato luogo, firma indelebile nel piè d’ogni poesia.







Un componimento di sedici versi, un’implicita musicalità palese nell’utilizzo d’una strofa libera, non strutturata nella norma della regola poetica, bensì nella spirituale stesura d’un narrare non diretto dell’autore, come consono stereotipo della poetica, ma palese soliloquio della stessa protagonista, essa matrice portante del contesto, bipartitasi in un dualismo nel quale diviene agente ed atto narrato. Non una carnalità femminea in atto, ma quest’ultima diviene un avvincente e subliminale mezzo allegorico, per dar voce ad un loco d’ispirazione narrativa, metafora d’una nomea leggendaria, efficacemente composta nell’intento di render l’ambiente descritto come la personificazione primaria dei fatti svoltesi nel proprio suolo. Gebel, comparabilmente ad un’icona materna, chiarificata attraverso gli eventi mutuati nel suo grembo, concepisce in sé vicende, frammentarietà quotidiane che d’essa né rendono come quasi una plasmabile forma corporea. Non un sol altipiano, non un lascivo sterrato d’arena infertile, ma un rigoglioso congiungersi d’eventi che di essa dona la reale sensazione di vita. Una rivincita berbera, attraverso la quale vi si cela la rimostranza che seppur nell’angustia della precarietà nulla diviene impronunciabile ed invivibile.



 L’instancabilità delle genti riversa la sua natura non desolata nel quarto verso “ attorno a me una folla variopinta di suoni odori respiri”, altro aspetto ribadito nel nono verso “ ragazzi impegnati”, il quale inaspettatamente diviene anche stilisticamente interessante, giacché inarcandosi nel decimo, è concluso con un enjambement “ in una goliardica scampagnata notturna”. Un poetar quello del Olla, che riconduce nella prima fase del testo ad un’impostazione quasi decodificata del Montale, un percorso impegnativo: il simbolismo dei gradini, uno scalar d’eventi, vicende da vivere e carpire nel contenuto.



 Non casuale l’assenza di punteggiatura nel primo verso, giacché il processo del crescere è presentato come un iter graduale, sviluppato nei suoi contorni e mai come mero elenco di fatti. In virtù di questo anche l’immaginario dello scalare, nello specifico, in un altipiano d’oriente, il quale quest’ultimo assume un netto protagonismo nel ruolo portante del procedere. Similmente ad una madre, Gebel concede la partenza dei figli suoi, il periodo “lascio andare tutti”, presente nel quattordicesimo verso n’è rilevante nota. Un paragrafo d’esistenza vissuta s’un suolo dall’acre apparenza ma dalla magnanima emozionalità. Uno scenario suggestivo, sublimato in una ritmica spezzata, un racconto incisivamente chiarificante d’una realtà spesso esautorata dalla sua nota emozionalità.





ENRICA MELONI

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