lunedì 10 settembre 2012

Lacrime d'acacia






Un’altra alba sorge nel delirio di una femminilità che mai ho domandato. Donna, spirito nomade in sterpaglie di tormenti, che come fronde di torpore attanagliano senza pietà il mio pianto. Non riposo, giaccio muta, medito, mi sento errante, un passo calpestato tra le polveri del tempo. Nulla mi è giusto, poco comprendo se non la fragilità del ricordo. Mi sento sola, né madre né moglie, io, come trama d’un tessuto ferito, strappato dalla foga dei tormenti. Abrascico¹, focolare del mio strazio, un rudere solitario , inghiottito da una montagna che respira dolori.

 Ogni bambina qua riecheggia pietà, ma mai nessuno ascolta il suo grido. Ogni seno ha già prematuramente riversato nutrimento per i calvari, ogni ventre è stato parto di un’infanzia già fin troppo adulta per essere considerata tale. Noi, infelici figlie di un’immeritata Sunna², orfane d’un Dio che ci ha cullate su macabre tele dalla vernice di sangue. Ogni Eritrea ha il suo flagello, una piccola stonatura terrena, imposta da un’abitudine ordinaria al di là del lecito. Perché ho dovuto rinunciare alle mie carni? Chi sono ora nel mio corpo nudo di dignità? Mai nessun niqab³ sarebbe in grado di coprire la mia amarezza. Ogni capanna possiede il suo segreto, un dolore insanabile, insicuro come il suo tetto di rami che incede agli eventi del tempo. 

Quel panno ignobile, pezza purulenta di un sudore di vecchia, ancora nauseabondo, non scompare, mi assale, percuote la mia mente; come frusta di pelli seccate dilania i miei pensieri e m’invita al tremore. Già, tremore, proprio questo! Quel compagno ripudiato che accompagna ogni mio giorno, quell’ombra malaugurata, che la mia urina combatte ogni qualvolta io devo liberarmi da un’acqua che scorga lenta e tardiva, uno scorrere punitivo di una colpa che mi è stata imposta: esser donna. 


Io, priva di piacere, solitaria, essere dalle perdute labbra ritrovate poi in altre che urlano giustizia. Ecco, questa è la mia umana sorte! I miei polsi tanto uguali quanto diversi, il destro gridò, reclamò la tregua che mai giunse. Lussato, sofferente dal divincolarsi di quei movimenti che infliggevano dolore. Io, supina nella penombra di quel dormitorio che di me faceva ancella del martirio. Gesti, nati e  scoordinati nella disarmonia delle mie grida; donne che testimoni ed assassine sfoggiavano mani ree di una pesante tortura. Una propiziazione alla vita che albergava in me come aculei cocenti d’assordanti silenzi.

 Lo sguardo di mia madre era prepotente, severo, una vera gogna che mi obbligava a tacere.
-Come avrei potuto non pronunciare alcuna parola nel momento in cui il mio corpo era succube del tormento?-
 Il ventre che partorisce, spesso tradisce le sue figlie, rendendole plasmabili al furore di un atroce destino sociale, le svende al miglior offerente. Uno sposo è come un mercante errante, si appiglia alla sua mercanzia valutandone il valore. Si, noi, frutti ancora acerbi, avremmo dovuto essere cibaria pregiata per sapori maturi, per palati sopraffini, per menti ancora mediocremente ferme all’egoismo di una cinica forma di spregevole usanza. Noi, dalla pelle marchiata di pianto, bassi ventri inaspriti da sensualità sconosciute.
-Forse sono un’anima destinata agli angoli scordati dal mondo?-


 Tutto questo m’intorpidisce ogni respiro, inalo aria che di purezza non porta neanche il nome. Intaglio gemiti di rabbia, riversata ad ogni imbrunire in una nenia dall’insanabile maledizione. Anche i miei capelli appaiono straniti, come offesi, stentano a mostrarsi vivi. Loro, steli spenti fra le polveri d’inanimate ciocche. Inariditi dagli strappi iracondi, che la sorella dell’aguzzina, non aveva stentato a provocarmi, quando io, oltre il limite del dolore, farneticavo sofferenza, agitandomi, come se un avo stesse giocando con il mio corpo dagli antri più cupi della sua vita oltre la terra. 

Vivevo come spirito dello spasimo, digrignavo i denti fino a che qualcuna pensava di soffocare il  mio sfogo con un panno che sapeva ancora di bestiame; un sapore nauseabondo, un olezzo che risaliva alle mie narici provocandomi del vomito, il quale per me era diventato un intoccabile diritto. Si, avrei dovuto liberarmi di quel macabro senso di tormenta, come avrei anche potuto evitare di essere là, s’una schiena, oramai divenuta perno sacrificale di una vita conclusa ancor prima d’iniziare.
-Come potrei pensare di essere donna nel momento in cui i miei stessi occhi non vedono ciò?- 


Mi guardo, scorgo il mio sguardo lungo il mio corpo. Contemplo mani esili, piedi a lutto, solcati in una terra che assorbe esauste pene di travagli inesauribili. Sono moribonda alla vita, non scordo, non voglio farlo. Voglio ricordare affinché ogni passo del martirio, resti saldo nella mia mente, e mi renda cosciente del fatto che io non sono donna, sono semplicemente quel che rimane di essa, un lontano ed offuscato ricordo, un rimbombo risonante in un tempo fermo all’ora dell’orrore. Noi, destinatarie di uno scempio che ci rende analfabete al godimento, ignare di quel che la natura ha a noi donato, per poi inerme, vederlo derubare da madri prive di pietà. Una madre eritrea nasce disgraziata ed in dote dona la sua stessa malasorte alla propria figlia, un dono anomalo in un legame che avrebbe dovuto essere tanto amabile. 


La follia innescata dal patimento, accresceva il premere di quelle luride unghie che cingevano le mie braccia come morse impenitenti. Vigorose e penetranti, solcavano la mia pelle con totale padronanza.
 <<- Non parlare, Non muoverti!->>
Esclamazione incomprensibile, rivolta ad un’anima che vuol ancora esser un tutt’uno con il corpo nel quale dimora.
<<- Soffri ora e domani avrai un marito!->>
-Cosa avrebbe potuto rappresentare un uomo, in quegli attimi in cui, proprio per questo la mia dignità era stata sgretolata in una poltiglia di saliva, sangue e pelle, destinate all’asprezza dei giorni avvenire?-
- Chi era costui?-
- Cosa avrebbe avuto in più di me tanto da dover pretendere questa illogica agonia?-
 Lui, propugnatore di pretese, assecondate dal masochismo irrequieto di donne che si auto annullavano compiacenti del loro stesso dolore. Ottuse, portate alle dicerie d’effigi superstiziose che come simulacri aperti, liberavano insulse tesi su quella che avrebbe dovuto essere la vera virtù. Mentitrici! La mia credibile esistenza sarebbe stata quella concessa dalla natura, che loro invece, spietatamente erano solite correggere. 


-Come potrei essere beata ad una vita che mi ha punita senza che io potessi permettermi di difendere il mio orgoglio?-
 Si quel senso di dignità che ogni donna merita mostrare e far valere dinnanzi agli scempi del mondo. Ogni pianta di euforbia è come se simboleggiasse volti strappati alla pace delle giornate. Osservo questi fusti che s’innalzano, sperando d’incontrare la fertile luminosità del sole, ma che allo stesso tempo vivono perenni, ricolmi di spine che a stento fioriscono in petali di gradevole visione. Tante radici, altrettante sfortune, che camminano con le gambe serrate per nascondere il dolore.

 Ogni figlia è come un vegetale, agonizzante nella siccità, pronto alle difensive dai parassiti. Tarda a morire e sofferente di fronte all’apparenza di chi la scorge senza capirne i tormenti. Una donna è come un’euforbia, a differenza del fatto che mentre una viene potata, l’altra no. Proprio noi, forme vitali, recise come rami insignificanti, per poi essere gettate sulla brace del dimenticatoio.
-Perché ferirci, interromperci, spartirci come tagli di prima scelta, presentati poi come onore di una famiglia che per noi non ha fatto altro che mostrare solamente  la propria miserabile lama?-
- Dov’era Dio?-
Sia Cristiane, sia Musulmane pativano lo stesso identico dolore, uguali al tribale abominio di un credo che nulla ordinava. 
Era solo miserrima superstizione! Qualcuna ripudia il vetro, lo sente ancora nelle sue carni, lo fa suo senza volerlo. Trema, lo ascolta, lo cerca ritrovandolo nella sua angoscia mai sanata. Io, ne ricordo solamente l’opaca trasparenza, sporcata da una latrina di arretratezza che ferì generazioni di sorelle, concepite dallo stesso destino.

 Per me è stato sempre solo un coccio inutile, io provavo ben altro dolore: una lama affilata, una forbice, entrambe firmate da un modernismo post coloniale che sicuramente non placava i miei tormenti. Sai che consolazione, diventare sperimento di lame ancora nuove, mai usate, acquistate in un mercato lontano che nella tua terra  aveva portato altro dolore. Le lame occidentali hanno un taglio netto, perfetto, sicuro ed infallibile, le carni scure di una donna eritrea erano oramai i committenti fedeli di una spietata compravendita di metalli, arrugginiti dalle urla maniacali di povere meschine che pagavano il loro destino con la moneta della loro stessa pelle. 

Secondo mia madre, avrei dovuto sentirmi fortunata, orgogliosa di diventare una vera donna, segnata da una lama prediletta, mai immersa nel sangue di un’altra. Sicuramente non mi avrebbe condotto alla morte come invece era accaduto a quelle bambine, divorate dalla setticemia e dal tetano in una graduale e lenta agonia.  Io sarei rimasta pura, quanto vergine era la lama che avrebbe dovuto iniziarmi alla vita. Una volta sottoposta allo scempio, avrei dovuto essere una meta ambita per un sodalizio che non desideravo, avrei generato altre infelici, mi sarei depurata di ogni espiazione spirituale ed il mio corpo avrebbe avuto un’igiene, riversata poi in un’estetica a parer mio inguardabile. 

Se questa avrebbe dovuto esser la vera femminilità, avrei preferito decedere inanime in un cimitero invalicabile, nel quale nessuno avrebbe potuto accedere, concedendomi cosi un riposo assolutamente meritato. Desideravo morire, ma mai i miei avi erano giunti a prendermi, a condurmi dove, loro indifferenti assistevano senza far nulla a questo supplizio. Li chiamavo, supplicavo, ma mai nessuno di loro mi era stato vicino come io speravo. Alcune bambine decidevano sul loro stesso destino, da sole, al barlume del segreto, adagiate dentro i capanni dello sgomento, dilaniavano la loro stessa carne, affinché altri non lo facessero prepotentemente  senza alcuna pietà. Mia sorella, mi guardava. In lei lacrime di follia. Gemeva in rantoli di saliva mentre il suo sangue sgorgava da un piccolo e timido clitoride che mai nessun male aveva commesso. 

Un innocente frammento di vita, gettato sulle sterpaglie di una terra che l’aveva avuta in un pasto gradito, richiesto ancora, ed altrettante volte ancora, una prelibatezza dal retrogusto amaro.  Lei, era coraggiosa, io, concessa alle decisioni di quella persecutrice che tra le mie cosce, incise un marchio che mai avevo richiesto. Mia madre percuoteva le mie gambe, le altre come ancelle e serve di una sovrana dannata, porgevano il loro aiuto che di certo non era offerto a me. Lenta, la lama lacerava il mio essere, intralciava quello che era mio, urlai. La morsa del dolore mi aveva fatto perdere coscienza della mia offesa femminilità. Una parte di lucidità l’avevo ancora  mantenuta,  dinnanzi a quel sangue che bagnando i piedi della carceriera, diventava un rigagnolo di detestabili imprecazioni che ripetevo fino al massimo livello della nausea. Ecco, da quel momento i miei genitali erano scomparsi.  Maledetto rito!  Rimuginavo rabbia, legata da filamenti di seta rovinata, sentivo le mie anche e le mie gambe, prigioniere di un filo brutalmente azzurro che di cielo nulla aveva. Tre settimane di attesa, schiava di una posizione che mi avevano maldestramente imposto. Ero indebolita da quei crini che ricucivano le mie carni, accompagnati dalla smania delle spine d’acacia che diventavano la sutura di una piaga destinata mai a rimarginarsi. In Eritrea anche la più normale prestazione medica era improvvisata. Tutto per me era afflizione, specie quando pensavo al giorno in cui, quel dannato, ancora incognito sposo, avrebbe dovuto nuovamente tormentarmi, riaprendo quella ferita, diventata irreparabilmente orifizio di sofferenza. I miei genitali esterni, adagiati sulla pietra vicina agli esili armenti del villaggio. Le mie labbra seccarono alla luce del giorno, diventando poi dimora d’insetti che ne facevano un’ambita culla di ritrovo. Sotto il mio ombelico, una cenere scura confortava il mio patire. Spesso mia madre detergeva la parte con dei tuorli d’uovo che si attaccavano sulla pelle emanando una scia di pena capitale. Un calvario che racchiudo nelle memorie di una oramai incanutita e miseranda Eritrea, dall’utero diventato carcere di quel diritto umano, che mai ho conosciuto. Piango, calpesto il profumo di quell’acacia che adorna la mia terra facendo razzia della mia dignità. Io, donna fra le donne, misera ombra di una lacrima mai consolata.

In memoria delle donne eritree sottoposte alla dilaniante pratica dell’infibulazione, bandita  e ritenuta illegale dal Governo eritreo solamente dal 31 Marzo 2007.









        Note:

        1.Abrascico: Villaggio dell’Eritrea, particolarmente suggestivo per le numerose piante di euforbia
        Che caratterizzano l’ambiente circostante.

2.Sunna: Costume o codice di comportamenti all’interno della società. Termine di matrice islamica che  richiama i costumi della tradizione di un paese. Una raccolta di condotte che il Profeta ha assunto in differenti occasioni, pertanto divenute nel tempo esempi da seguire da parte di tutta la comunità.

        3.Niqab: Velo islamico che copre integralmente il viso della donna lasciando scoperti
                        solamente gli occhi.

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