Un’altra alba sorge nel delirio di una femminilità che mai ho
domandato. Donna, spirito nomade in sterpaglie di tormenti, che come fronde di
torpore attanagliano senza pietà il mio pianto. Non riposo, giaccio muta,
medito, mi sento errante, un passo calpestato tra le polveri del tempo. Nulla
mi è giusto, poco comprendo se non la fragilità del ricordo. Mi sento sola, né
madre né moglie, io, come trama d’un tessuto ferito, strappato dalla foga dei
tormenti. Abrascico¹, focolare del mio strazio, un rudere solitario ,
inghiottito da una montagna che respira dolori.
Ogni bambina qua riecheggia
pietà, ma mai nessuno ascolta il suo grido. Ogni seno ha già prematuramente
riversato nutrimento per i calvari, ogni ventre è stato parto di un’infanzia
già fin troppo adulta per essere considerata tale. Noi, infelici figlie di
un’immeritata Sunna², orfane d’un Dio che ci ha cullate su macabre tele
dalla vernice di sangue. Ogni Eritrea ha il suo flagello, una piccola stonatura
terrena, imposta da un’abitudine ordinaria al di là del lecito. Perché ho
dovuto rinunciare alle mie carni? Chi sono ora nel mio corpo nudo di dignità? Mai
nessun niqab³ sarebbe in grado di coprire la mia amarezza. Ogni
capanna possiede il suo segreto, un dolore insanabile, insicuro come il suo
tetto di rami che incede agli eventi del tempo.
Quel panno ignobile, pezza
purulenta di un sudore di vecchia, ancora nauseabondo, non scompare, mi assale,
percuote la mia mente; come frusta di pelli seccate dilania i miei pensieri e
m’invita al tremore. Già, tremore, proprio questo! Quel compagno ripudiato che
accompagna ogni mio giorno, quell’ombra malaugurata, che la mia urina combatte
ogni qualvolta io devo liberarmi da un’acqua che scorga lenta e tardiva, uno
scorrere punitivo di una colpa che mi è stata imposta: esser donna.
Io, priva di piacere, solitaria, essere dalle perdute labbra
ritrovate poi in altre che urlano giustizia. Ecco, questa è la mia umana sorte!
I miei polsi tanto uguali quanto diversi, il destro gridò, reclamò la tregua
che mai giunse. Lussato, sofferente dal divincolarsi di quei movimenti che
infliggevano dolore. Io, supina nella penombra di quel dormitorio che di me
faceva ancella del martirio. Gesti, nati e
scoordinati nella disarmonia delle mie grida; donne che testimoni ed
assassine sfoggiavano mani ree di una pesante tortura. Una propiziazione alla
vita che albergava in me come aculei cocenti d’assordanti silenzi.
Lo sguardo
di mia madre era prepotente, severo, una vera gogna che mi obbligava a tacere.
-Come avrei potuto non pronunciare alcuna parola nel momento
in cui il mio corpo era succube del tormento?-
Il ventre che
partorisce, spesso tradisce le sue figlie, rendendole plasmabili al furore di
un atroce destino sociale, le svende al miglior offerente. Uno sposo è come un
mercante errante, si appiglia alla sua mercanzia valutandone il valore. Si,
noi, frutti ancora acerbi, avremmo dovuto essere cibaria pregiata per sapori
maturi, per palati sopraffini, per menti ancora mediocremente ferme all’egoismo
di una cinica forma di spregevole usanza. Noi, dalla pelle marchiata di pianto,
bassi ventri inaspriti da sensualità sconosciute.
-Forse sono un’anima destinata agli angoli scordati dal
mondo?-
Tutto questo
m’intorpidisce ogni respiro, inalo aria che di purezza non porta neanche il
nome. Intaglio gemiti di rabbia, riversata ad ogni imbrunire in una nenia
dall’insanabile maledizione. Anche i miei capelli appaiono straniti, come offesi,
stentano a mostrarsi vivi. Loro, steli spenti fra le polveri d’inanimate
ciocche. Inariditi dagli strappi iracondi, che la sorella dell’aguzzina, non
aveva stentato a provocarmi, quando io, oltre il limite del dolore, farneticavo
sofferenza, agitandomi, come se un avo stesse giocando con il mio corpo dagli
antri più cupi della sua vita oltre la terra.
Vivevo come spirito dello
spasimo, digrignavo i denti fino a che qualcuna pensava di soffocare il mio sfogo con un panno che sapeva ancora di
bestiame; un sapore nauseabondo, un olezzo che risaliva alle mie narici
provocandomi del vomito, il quale per me era diventato un intoccabile diritto.
Si, avrei dovuto liberarmi di quel macabro senso di tormenta, come avrei anche
potuto evitare di essere là, s’una schiena, oramai divenuta perno sacrificale
di una vita conclusa ancor prima d’iniziare.
-Come potrei pensare di essere donna nel momento in cui i
miei stessi occhi non vedono ciò?-
Mi guardo, scorgo il mio sguardo lungo il mio corpo. Contemplo
mani esili, piedi a lutto, solcati in una terra che assorbe esauste pene di travagli
inesauribili. Sono moribonda alla vita, non scordo, non voglio farlo. Voglio
ricordare affinché ogni passo del martirio, resti saldo nella mia mente, e mi
renda cosciente del fatto che io non sono donna, sono semplicemente quel che
rimane di essa, un lontano ed offuscato ricordo, un rimbombo risonante in un
tempo fermo all’ora dell’orrore. Noi, destinatarie di uno scempio che ci rende
analfabete al godimento, ignare di quel che la natura ha a noi donato, per poi
inerme, vederlo derubare da madri prive di pietà. Una madre eritrea nasce disgraziata
ed in dote dona la sua stessa malasorte alla propria figlia, un dono anomalo in
un legame che avrebbe dovuto essere tanto amabile.
La follia innescata dal patimento, accresceva il premere di
quelle luride unghie che cingevano le mie braccia come morse impenitenti.
Vigorose e penetranti, solcavano la mia pelle con totale padronanza.
<<- Non parlare,
Non muoverti!->>
Esclamazione incomprensibile, rivolta ad un’anima che vuol
ancora esser un tutt’uno con il corpo nel quale dimora.
<<- Soffri ora e domani avrai un marito!->>
-Cosa avrebbe potuto rappresentare un uomo, in quegli attimi
in cui, proprio per questo la mia dignità era stata sgretolata in una poltiglia
di saliva, sangue e pelle, destinate all’asprezza dei giorni avvenire?-
- Chi era costui?-
- Cosa avrebbe avuto in più di me tanto da dover pretendere
questa illogica agonia?-
Lui, propugnatore di
pretese, assecondate dal masochismo irrequieto di donne che si auto annullavano
compiacenti del loro stesso dolore. Ottuse, portate alle dicerie d’effigi
superstiziose che come simulacri aperti, liberavano insulse tesi su quella che
avrebbe dovuto essere la vera virtù. Mentitrici! La mia credibile esistenza
sarebbe stata quella concessa dalla natura, che loro invece, spietatamente erano
solite correggere.
-Come potrei essere beata ad una vita che mi ha punita senza
che io potessi permettermi di difendere il mio orgoglio?-
Si quel senso di
dignità che ogni donna merita mostrare e far valere dinnanzi agli scempi del
mondo. Ogni pianta di euforbia è come se simboleggiasse volti strappati alla
pace delle giornate. Osservo questi fusti che s’innalzano, sperando
d’incontrare la fertile luminosità del sole, ma che allo stesso tempo vivono
perenni, ricolmi di spine che a stento fioriscono in petali di gradevole
visione. Tante radici, altrettante sfortune, che camminano con le gambe serrate
per nascondere il dolore.
Ogni figlia è come un vegetale, agonizzante nella
siccità, pronto alle difensive dai parassiti. Tarda a morire e sofferente di
fronte all’apparenza di chi la scorge senza capirne i tormenti. Una donna è
come un’euforbia, a differenza del fatto che mentre una viene potata, l’altra
no. Proprio noi, forme vitali, recise come rami insignificanti, per poi essere
gettate sulla brace del dimenticatoio.
-Perché ferirci, interromperci, spartirci come tagli di prima
scelta, presentati poi come onore di una famiglia che per noi non ha fatto
altro che mostrare solamente la propria
miserabile lama?-
- Dov’era Dio?-
Sia Cristiane, sia Musulmane pativano lo stesso identico
dolore, uguali al tribale abominio di un credo che nulla ordinava.
Era solo
miserrima superstizione! Qualcuna ripudia il vetro, lo sente ancora nelle sue
carni, lo fa suo senza volerlo. Trema, lo ascolta, lo cerca ritrovandolo nella
sua angoscia mai sanata. Io, ne ricordo solamente l’opaca trasparenza, sporcata
da una latrina di arretratezza che ferì generazioni di sorelle, concepite dallo
stesso destino.
Per me è stato sempre solo un coccio inutile, io provavo ben
altro dolore: una lama affilata, una forbice, entrambe firmate da un modernismo
post coloniale che sicuramente non placava i miei tormenti. Sai che
consolazione, diventare sperimento di lame ancora nuove, mai usate, acquistate
in un mercato lontano che nella tua terra
aveva portato altro dolore. Le lame occidentali hanno un taglio netto,
perfetto, sicuro ed infallibile, le carni scure di una donna eritrea erano
oramai i committenti fedeli di una spietata compravendita di metalli,
arrugginiti dalle urla maniacali di povere meschine che pagavano il loro
destino con la moneta della loro stessa pelle.
Secondo mia madre, avrei dovuto
sentirmi fortunata, orgogliosa di diventare una vera donna, segnata da una lama
prediletta, mai immersa nel sangue di un’altra. Sicuramente non mi avrebbe
condotto alla morte come invece era accaduto a quelle bambine, divorate dalla
setticemia e dal tetano in una graduale e lenta agonia. Io sarei rimasta pura, quanto vergine era la
lama che avrebbe dovuto iniziarmi alla vita. Una volta sottoposta allo scempio,
avrei dovuto essere una meta ambita per un sodalizio che non desideravo, avrei
generato altre infelici, mi sarei depurata di ogni espiazione spirituale ed il
mio corpo avrebbe avuto un’igiene, riversata poi in un’estetica a parer mio
inguardabile.
Se questa avrebbe dovuto esser la vera femminilità, avrei
preferito decedere inanime in un cimitero invalicabile, nel quale nessuno
avrebbe potuto accedere, concedendomi cosi un riposo assolutamente meritato.
Desideravo morire, ma mai i miei avi erano giunti a prendermi, a condurmi dove,
loro indifferenti assistevano senza far nulla a questo supplizio. Li chiamavo,
supplicavo, ma mai nessuno di loro mi era stato vicino come io speravo. Alcune
bambine decidevano sul loro stesso destino, da sole, al barlume del segreto,
adagiate dentro i capanni dello sgomento, dilaniavano la loro stessa carne,
affinché altri non lo facessero prepotentemente senza alcuna pietà. Mia sorella, mi guardava.
In lei lacrime di follia. Gemeva in rantoli di saliva mentre il suo sangue
sgorgava da un piccolo e timido clitoride che mai nessun male aveva commesso.
Un innocente frammento di vita, gettato sulle sterpaglie di una terra che
l’aveva avuta in un pasto gradito, richiesto ancora, ed altrettante volte
ancora, una prelibatezza dal retrogusto amaro.
Lei, era coraggiosa, io, concessa alle decisioni di quella persecutrice
che tra le mie cosce, incise un marchio che mai avevo richiesto. Mia madre
percuoteva le mie gambe, le altre come ancelle e serve di una sovrana dannata,
porgevano il loro aiuto che di certo non era offerto a me. Lenta, la lama
lacerava il mio essere, intralciava quello che era mio, urlai. La morsa del
dolore mi aveva fatto perdere coscienza della mia offesa femminilità. Una parte
di lucidità l’avevo ancora mantenuta, dinnanzi a quel sangue che bagnando i piedi
della carceriera, diventava un rigagnolo di detestabili imprecazioni che
ripetevo fino al massimo livello della nausea. Ecco, da quel momento i miei
genitali erano scomparsi. Maledetto
rito! Rimuginavo rabbia, legata da
filamenti di seta rovinata, sentivo le mie anche e le mie gambe, prigioniere di
un filo brutalmente azzurro che di cielo nulla aveva. Tre settimane di attesa,
schiava di una posizione che mi avevano maldestramente imposto. Ero indebolita
da quei crini che ricucivano le mie carni, accompagnati dalla smania delle
spine d’acacia che diventavano la sutura di una piaga destinata mai a
rimarginarsi. In Eritrea anche la più normale prestazione medica era
improvvisata. Tutto per me era afflizione, specie quando pensavo al giorno in
cui, quel dannato, ancora incognito sposo, avrebbe dovuto nuovamente
tormentarmi, riaprendo quella ferita, diventata irreparabilmente orifizio di
sofferenza. I miei genitali esterni, adagiati sulla pietra vicina agli esili
armenti del villaggio. Le mie labbra seccarono alla luce del giorno, diventando
poi dimora d’insetti che ne facevano un’ambita culla di ritrovo. Sotto il mio
ombelico, una cenere scura confortava il mio patire. Spesso mia madre detergeva
la parte con dei tuorli d’uovo che si attaccavano sulla pelle emanando una scia
di pena capitale. Un calvario che racchiudo nelle memorie di una oramai
incanutita e miseranda Eritrea, dall’utero diventato carcere di quel diritto
umano, che mai ho conosciuto. Piango, calpesto il profumo di quell’acacia che
adorna la mia terra facendo razzia della mia dignità. Io, donna fra le donne, misera
ombra di una lacrima mai consolata.
In memoria delle donne eritree sottoposte alla dilaniante
pratica dell’infibulazione, bandita e
ritenuta illegale dal Governo eritreo solamente dal 31 Marzo 2007.