Denuda come atri illibati da un pacchiano mobilio.
Suadente movenza d’un beneplacito d’anca,
onomatopeico udire,
sospiro insaziato di quel che plasmeresti.
Tu,
venustà lungi d’ipocriti verbi,
solenne amplesso
come pronuncia egregia delle labbra tue.
Labbra
come linfe eroiche d’un colostro materno bramoso d’altro seme.
Implicito erotismo d’un fallico ardire.
Vorresti, avesti, godesti,
mai scordasti.
Sul talamo della violacea tessitura d’un baco operoso,
sbocciasti a languori terreni.
Bruna nel tuo incontro, mostrasti vello di donna,
ottenesti saldezza d’un membro audace.
Ingorda,
apparente infingarda, influisti di lauti assaporare.
Un sublimar gusto dal barocco tocco,
delineamento d’una sessualità d’onnipotente senso.
Un bersi di lui,
un aver di te che diventò Pompeiana opera.
Tu Venere, nicchio del piacere.

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